Sezioni

16 Maggio 2024 home

Abruzzo Popolare

Sito di informazione quotidiana: politica, cronaca, economia, ambiente, sport, piccoli Comuni, editoriali e rubriche

IL CULTO DI S. AMICO IN ABRUZZO E MOLISE

Santi ed anacoreti Benedettini domatori di lupi. Il Culto di S. Amico a Cocullo e S. Pietro Avellana

[Pubblicazioni in “Rassegna Culturale del Centro Abruzzo” Ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2006; “La Gazzetta della Valle del Sagittario”, Villalago 2001; “Rivista Abruzzese”, N 3-4 Lanciano 2009]

di Franco Cercone

Fra le chiese esistenti a Cocullo e menzionate nella Bolla Corografica di Clemente III (ll88) ne troviamo una dedicata a Sant’Amico, vissuto fra la seconda metà dell’XI ed i primi decenni del XII secolo. Secondo fonti benedettine egli sarebbe morto infatti nel 1123 nel monastero di San Pietro Avellana, fondato intorno agli anni 1023-1025 da San Domenico di Cocullo, della cui opera Amico può essere considerato un fedele prosecutore[1].

Del nostro S. Amico si è occupato recentemente il Chiocchio in un interessante lavoro dal titolo I serpari di Cocullo[2], nel quale l’A. parla anche di un affresco esistente nella chiesa della Madonna delle Grazie a Cocullo e di particolare interesse agiografico.

Il sacro edificio dedicato alla Vergine si presenta oggi modificato rispetto ad “un impianto più antico risalente al XIII secolo”[3] e nell’interno, a navata unica, si possono ammirare affreschi del XVI secolo nonché un Trittico raffigurante ai due lati S. Antonio da Padova e S. Maria Maddalena con al centro Sant’Amico.

Quest’ultimo è chiamato in alcune fonti cassinesi Ramibonensis, forse dal nome di un’Abbazia (Arabona o Rambona) che sorgeva nel Piceno, area geografica che sembra aver dato i natali al santo anacoreta. L’annalista cassinese Berardo si chiede infatti: “Cur vero Ramibonensis a Pietro Damiani appelletur, divinare non licet, nisi forte Arabonensis seu Arambonensis legendum est” [4].

Insomma, per mutuare una felice espressione del Chiocchio, il nostro Sant’Amico è “una figura affascinante e un pochino misteriosa…; in una chiesa di Rambona è effigiato con attrezzi agricoli ed in un’altra stampa trasporta legna…Nella chiesa della Madonna delle Grazie è raffigurato invece con l’ascia sulle spalle”[5], come in un affresco del ‘400 che si ammira appunto nel Monastero di Sant’Amico a L’Aquila e che secondo F. Giustizia sarebbe un “simbolo eloquente del disboscamento monacale nell’altomedioevo”[6], attività nell’ambito della quale non è agevole cogliere la concezione di boschi e foreste come immagine di “solitudo e di horrendum desertum”, dato che la presenza delle selve, dono secondo San Francesco di Dio agli uomini, costituiva una condicio  fondamentale e pertanto ideale per la fondazione di cenobi da parte dei Benedettini ed altri Ordini monastici.  

Se le vicende biografiche di S. Amico sono caratterizzate dalla massima incertezza, non altrettanto si può dire degli aspetti iconografici con cui è stato rappresentato e tramandato ai posteri sulla base di leggende agiografiche[7].

La vita di S. Amico, scritta verso la fine dell’800 dal parroco Frazzini di S. Pietro Avellana, può essere definita un compendio di tali leggende e fra esse la più notevole, per i riflessi esercitati sotto il profilo iconografico, è quella che attribuisce al Santo il potere di rendere mansueti i lupi.
L’episodio agiografico è così narrato dal Frazzini: “In seguito, ridottosi Amico nel monastero di S. Pietro Avellana, per umiltà volle un giorno recarsi con una mula in un bosco vicino, per caricarla di legna, di cui si aveva bisogno nel monastero. Mentre legnava, un lupo di straordinaria grandezza, avventatosi sulla povera bestia, in men che si dica la uccise e pareva che volesse sfamarsene, allorché alla vista di S. Amico, che moveva a quella volta, si cacciò a precipitosa fuga giù per quei burroni… S. Amico chiamato a sé il carnivoro animale, se lo vide venire tutto umile ai suoi piedi. Allora lo rimproverò del danno commesso, e gli fece precetto di portare in pena, la legna al monastero. Il lupo accettò, facendo un certo atto di riverenza, ed infatti, dimentico della naturale ferocia, si lasciò caricare e condurre da S. Amico al monastero. A memoria di quel fatto, da antichissimo tempo si dipinge Amico con a fianco un lupo carico di legna” [ivi, p. 29].

Nell’affresco della chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Cocullo, S. Amico è raffigurato invece con un’accetta da legna sulle spalle, che richiama semanticamente l’attività svolta dal Santo nel monastero di San Pietro Avellana.

Più poetica appare tuttavia la versione popolare, trasmessasi oralmente di generazione in generazione e dalla quale si apprende che nella suddivisione del lavoro i confratelli del piccolo cenobio avevano assegnato a Sant’Amico il compito di recarsi ogni giorno a tagliare la legna in un bosco sito nei pressi di San Pietro Avellana. Fedele compagna delle sue diuturne fatiche era una mula adibita al trasporto della legna ed alla quale il Santo eremita era particolarmente affezionato. A tal punto che S. Amico – narra un’altra leggenda agiografica – trovandosi a legnare nel solito bosco, volle dissetare la paziente mula e rivolti gli occhi al cielo, conficcò il suo bastone nella terra e dal buco scaturì subito una sorgente freschissima d’acqua. In ricordo di tale miracolo sia la sorgente che il bosco furono chiamati in seguito di S. Amico.

Avvenne un giorno che mentre il Santo monaco era intento a spaccare la legna nel bosco, un feroce lupo divorasse la povera mula lasciata incustodita a pascolare. Alla vista di sì immane misfatto S. Amico, al lupo accorso mansueto ad un suo cenno, tenne questo breve sermone: “Io capisco che l’hai fatto per fame, ma come faccio io a trasportare la legna? Perciò ti dico che da oggi in poi e per tutto il tempo che Dio ti darà da vivere, tu svolgerai il lavoro che faceva la mia buona mula”. Detto questo S. Amico legò la sella della mula sulla groppa del lupo, vi sistemò la legna tagliata e fece ritorno a San Pietro Avellana, fra il generale stupore della gente, meravigliata nel vedere un lupo pazientemente adibito ad un lavoro svolto di norma da asini e muli. Non mancarono inoltre persone, come si racconta a San Pietro Avellana, che ignare dell’accaduto presero addirittura “per pazzo” il buon Sant’Amico.

Va osservato che la matrice di questo racconto sembra costituita da un noto episodio agiografico, quello cioè dell’asino di San Guglielmo, che fu divorato, secondo una leggenda, da un lupo mentre fervevano i lavori per la costruzione del celebre santuario della Madonna di Montevergine, fondato com’è noto nel 1119 e dunque molto tempo dopo la morte di S. Amico, la quale, secondo l’attenta ricostruzione del Settefrati (ivi, p. 102), sarebbe avvenuta “ancor prima dell’anno 1069”.  Il lupo “fu poi reso mansueto dal Santo e ridotto all’obbedienza, tanto da prendere il posto dell’asino nel trasporto dei materiali da costruzione”[8].

Questa sacra leggenda, adattata alle varie realtà locali, deve essersi diffusa assai presto in tutti i cenobi benedettini dipendenti da Cassino o da San Vincenzo al Volturno, ma con varianti di grande interesse demologico concernenti l’atavica negatività del lupo.

Alla luce di tali racconti non è infatti solo il lupo ad attentare alla vita dei bambini lasciati incustoditi dai genitori – come per es. nel noto episodio di San Domenico di Cocullo che si rappresenta a Pretoro – ma anche il lupo mannaro, che specie presso i ceti rurali suscitava non pochi timori ed angosce ancestrali. Così una sacra leggenda raccolta dal De Nino narra come a San Rainero, vivendo a Bagno, località presso L’Aquila, venisse a mancare l’acqua mentre era intento “a fabbricare una chiesa”. Pertanto egli chiese ad una donna che passava col bambino in braccio: “Fammi la carità, va alla fontana per una conca d’acqua, se no non posso continuare la fabbrica”.

La donna lascia momentaneamente incustodito il bambino e va ad attingere l’acqua. Ma “in quel mentre – prosegue il racconto – passa il lupo mannaro e si ruba il bambino”. San Rainero però, prontamente accorso alle grida della donna, fece tintinnare una campanella che portava con sé e recitando il seguente scongiuro: “Nchu ju tocche de la mia campana nen ce pozzene lupemenare, né serpente velenose e né acque in furiose”, rese mansueto il lupo mannaro, che riportò sano e salvo il bimbo alla madre[9].

Ricordato che il tema del lupo che restituisce il bimbo alla madre si rinviene anche in un racconto agiografico relativo a San Franco d’Assergi[10], occorre notare come alcuni “poteri” di San Rainero (quelli antiofidico e antitempestario) evidenziati nello scongiuro appaiano mutuati da San Domenico di Cocullo, cui è estraneo peraltro un patronato contro i lupi mannari, uno “status” che nelle leggende e superstizioni d’Abruzzo e Molise si acquisisce dai bambini fin dalla nascita, se questa avviene durante la notte o “a mezzanotte in punto” di Natale[11], tempo fatale anche per la nascita delle bambine, destinate a diventare “streghe”[12].

Ma al di là dei meri episodi agiografici, arricchiti dalla splendida fantasia popolare, va rilevata comunque la diffusione del culto di Sant’Amico non solo nel medio corso del Sangro -e principalmente a San Pietro Avellana, dove riposerebbero secondo alcune fonti le sue spoglie- ma anche in area peligna e nell’Aquilano. Ne fanno fede alcuni affreschi, come quelli esistenti nel monastero di S. Amico a L’Aquila, nella chiesa cinquecentesca di S. Francesco a Carapelle Calvisio ed in quella rurale dell’Icona Pastora di Amatrice, sub anno 1494, a riprova della diffusione del culto anche in Alta Sabina e nel Piceno. A Sulmona in particolare fu eretta in suo onore nel XIII secolo una chiesetta accanto a quella di San Panfilo. Inoltre una porta cittadina, attigua al piccolo tempio, era denominata Porta S. Amici e risultando diruta a seguito di terremoti, fu inglobata poi da Porta S. Panfilo[13].

Quale testimonianza della diffusione del culto di S. Amico nel Piceno va citato un episodio riferito da fra’ Serafino Razzi, il quale, partito in data 17 giugno 1575 dal castello di Quintodecimo, distante 15 miglia da Ascoli, pervenne, dopo aver superato altissime montagne, “lungo la riva del Tronto e ci fu da uno del paese mostrata una pietra, detta la Pietra di S. Amico, sopra della quale dicono che detto Santo giunse, cioè saltò dall’alta montagna che sta sopra di lei, in cui egli facea penitenza e ci si veggono ancora le vestigie e i piedi”[14]. Il Carderi riferisce in nota, sulla base di documenti tratti dalla “Biblioteca Sanctorum” (primo, 1600-700), che S. Amico di San Pietro Avellana, sul Sangro, nacque tra il 920 e 930 presso Camerino e visse per tre anni presso “una spelonca del monte Torano dell’Aquila, ma in diocesi di Ascoli” poi all’età di 90 anni si ritirò nel Monastero di S. Pietro Avellana, “dove trascorse gli ultimi anni isolato in una cella alla maniera dei reclusi”. Nessun cenno dunque si fa nella Biblioteca Sanctorum dell’episodio del lupo reso mansueto, che fu aggiunto molti secoli dopo nella Prima vita del Santo, come sottolinea a ragione il Settefrati.

Sant’Amico e S. Domenico di Cocullo, per tacer di S. Guglielmo, Sant’Eustorgio, S. Francesco d’Assisi e S. Franco d’Assergi, benedettino quest’ultimo vissuto nella seconda metà del XII secolo, si presentano dunque come dominatori della natura bruta, la quale nelle società agropastorali abruzzesi ed appenniniche in genere, viene a coincidere non solo con l’ambiente ostile, ma anche con alcuni animali che vi dimorano. Con alcune differenze tuttavia decisamente sostanziali. L’orso, per esempio, animale soprattutto erbivoro, non costituisce un pericolo grave come il lupo, che non attenta solo alla vita dell’uomo, di cui ha comunque paura, ma soprattutto a quella degli animali indispensabili al suo lavoro e sostentamento, come appunto gli equini ed ovini. Tale rilievo è valido inoltre anche per gli ofidi, poiché oltre a quelli velenosi, come le vipere, pericolosi per la vita dell’uomo, ve ne sono altri, per es. le cosiddette ‘mpastoravacche, che sono capaci come è noto di sottrarre latte alle poppe delle mucche che pascolano. 

Sicché mentre la leggenda di S. Domenico di Cocullo[15], come quella di S. Rainero, è costituita da una mera inventio, forse dei monaci cassinesi, in cui l’uomo è sostituito necessariamente da un bimbo indifeso, non altrettanto si può dire di quella relativa a S. Guglielmo e S. Amico, che riflette invece una situazione reale ed assai temuta dal mondo agropastorale[16]. Così le immagini rassicuranti del lupo, reso mansueto, rivelano il superamento dello “stato di natura” della “fiera”, la quale, grazie all’intervento mediatorio ed indispensabile dei monaci benedettini,viene inserita come animale da trasporto nell’economia del gruppo e dunque in uno “stato di cultura”.

A San Pietro Avellana la chiesa di S. Amico, che forma un unico plesso con la parrocchia dedicata ai SS. Pietro e Paolo, sembra antecedente alla data del 1585 contenuta in un concio infisso sulla facciata ed indicante forse l’anno di uno dei tanti restauri cui il tempio è stato in passato sottoposto. Nell’interno della chiesa, a navata unica, si ammirano due affreschi, forse tardo seicenteschi, raffiguranti i due più noti miracoli di S. Amico: la restituzione della vista ad un servo del conte Borrello, che recava al suo padrone delle trote acquistate a San Vincenzo al Volturno[17],  ed il lupo reso mansueto da S. Amico e recante addosso la legna. Una statua di recente fattura e conservata in una nicchia della parete di destra, raffigura lo stesso santo con a fianco il lupo che trasporta la legna. Un’altra statua di S. Amico, rappresentato “con la barba”, fu in un certo senso “ripudiata” dai fedeli di San Pietro Avellana, i quali ritengono tuttora che si tratti dell’immagine di San Domenico di Cocullo, fondatore del locale monastero.

Emergono così straordinari elementi comuni negli episodi agiografici relativi a molti santi benedettini, vissuti nella prima metà del seco XI. Questa caratteristica, che colpisce subito l’attenzione dello studioso, lascia supporre, come si è detto, una matrice comune che si è evoluta e diversificata a contatto con le singole realtà locali. I “registi” di questa agiografia leggendaria sono sempre loro: i Benedettini, che vivono nei cenobi sperduti in gole impervie o al limite di folti boschi, ma sempre vicini – a differenza di altri ordini religiosi – alle comunità rurali di cui hanno saputo interpretare i bisogni specie nella fase di passaggio dalle “ville e casali” a quella dell’incastellamento.

Alla base dei racconti agiografici v’è tuttavia il lupo. Simbolo di un terrore ancestrale ed irrazionale, alimentato dalla favolistica e dagli scrittori di fiabe, il lupo è stato in realtà un animale oggetto di caccia spietata da parte dell’uomo, che ha saputo sfruttare nelle vesti di luparo un atavico timore radicato soprattutto nella Weltanschauung dei ceti agro-pastorali. Andando in giro per casolari di campagna e per stazzi con il lupo morto legato sulla groppa di un asino o di un mulo, il luparo, ben fiero del suo macabro trofeo, riceveva gran copia di beni alimentari e nell’estate del 1956 noi stessi ne siamo stati testimoni. Un cacciatore di Cansano, tal Rocco De Santis, raccolse in questua più di un quintale di formaggio e salumi donati dai pastori di Cansano e Pettorano sul Gizio quale ricompensa per un lupo da lui ucciso in contrada Vertoli, sita fra Cansano e Pescocostanzo[18].

Gli episodi agiografici di San Guglielmo e Sant’Amico lasciano supporre che esistano casi analoghi di cui sono protagonisti altri santi, e non solo benedettini, che hanno operato in aree diverse da quella abruzzese-molisana. Nella cappella del Palazzo Majer, a Fossacesia, si ammira per es. un quadro che raffigura forse San Vincenzo Ferreri con accanto un lupo che lo segue mansueto. Probabilmente questo Domenicano spagnolo, titolare – e non solo in Abruzzo – del singolare patronato contro gli animali danneggiatori delle campagne, soprattutto bruchi e cavallette, è stato il protagonista di un episodio leggendario in parte analogo a quello di S. Amico, che non siamo riusciti tuttavia ad individuare, pur frugando fra i suoi numerosi testi agiografici.

Il culto di Santo Stefano “del lupo” a Carovilli e Manoppello.

Un particolare aspetto del patronato antirabbico è offerto dal culto professato a Carovilli, paese della provincia di Isernia, ed un tempo anche a Manoppello (Pescara), ad un altro Santo non Benedettino, ma appartenente all’Ordine dei Celestini fondato da fra’ Pietro dal Morrone.

Si tratta di Santo Stefanodetto appunto “del lupo”, che alcune fonti chiesastiche qualificano come Beato ma che comunque va annoverato fra i Santi domatori di fiere.

Il beato Stefano è personaggio storico. Di lui il Ricchiuti pubblicò nella prima metà del secolo scorso notizie agiografiche che, derivate da quelle formatesi nel corso dei primi decenni del XVII secolo attorno alla figura di San Domenico di Cocullo, assumono notevole importanza proprio per il loro aspetto leggendario[19].

Secondo il Ricchiuti, Stefano “fondò nel 1149 il monastero sotto il titolo di San Pietro Apostolo, detto San Pietro di Vallebona”, nei pressi di Manoppello, e di tale località fu anticamente anche protettore[20]. Dal Pansa, che ha pubblicato L’antico regesto del monastero di Vallebona, si apprende invece che la fondazione della chiesa e del monastero appartenuti dal 1285 ai Celestini di S. Spirito a Maiella, “avvenne per opera di Boemondo, conte di Manoppello”. Inoltre sulla base dei manoscritti dell’abate Zanotto[21], risulta che “il monastero in seguito si appellò con diversi titoli. Da San Pietro di Vallebona, titolo di fondazione, passò a chiamarsi Santa Maria di Vallebona…In un altro istrumento del 1576 ed in alcuni privilegi della stessa epoca, si trova cambiato il nome in quello di Santo Stefano di Vallebona[22], quel Santo appunto che in tale sede interessa e che assume in seguito l’appellativo “del lupo” secondo una leggenda agiografica così riassunta dal Ricchiuti: “Stefano vien detto del lupo. Avvenne che un giorno in Manoppello si vide girare un lupo che faceva vittima della sua rabbia tutti coloro che incontrava, destando il massimo terrore in quel pacifico paese. In sì grave pericolo i Manoppellesi ricorsero a S. Stefano e lo scongiurarono a liberarli da tanto male. Stefano, mosso a pietà dalle lagrime dei suoi Manoppellesi, elevò lo sguardo al cielo e dopo breve orazione, con un segno di croce, ammansì la belva feroce che, legata, condusse presso di sé per parecchio tempo. Per tale miracolo Stefano venne detto del lupo e con questo animale egli, dopo la morte, venne dipinto ed esposto alla pubblica venerazione” [S. Ricchiuti, cit., p. 21].

L’episodio, leggendario al pari di quello di S. Amico, dovette ben presto diffondersi in tutti i cenobi celestini e se ne coglie un’eco nel fatto che il monaco Carl Ruther, artista di origine polacca vissuto nel XVII secolo e facente parte della comunità celestina di Collemaggio, ci ha lasciato fra le numerose tele conservate oggi nel Museo Nazionale di L’Aquila (Sala Carl Ruther) un dipinto raffigurante Santo Stefano che regge al guinzaglio il famoso lupo affetto da rabbia e reso innocuo dal Santo benedicente. La tela presenta in basso un cartiglio con la seguente scritta:

B.(eatus) STEPHANUS  E  VALLEBONA  MIRA  MOR^^U (m)  SUAVITATE  EX MANSUEFACTO LUPO

HOMINES  AD DEUM ALLEXIT EIUSQ.(ue) CORPUS IN DIE DEDICAT (ionis) ECCLESIAE S. SPIRITUS

MAGELLA (e) MAGNO POPULOR. (um) CONCURSU (ad) VENERANDUM EXPONITUR

[Beato Stefano da Vallebona, di meravigliosa santità di costumi; a causa del lupo ammansito

attrasse gli uomini a Dio ed il suo corpo nel giorno della dedicazione della Chiesa di S. Spirito a Maiella

viene esposto alla venerazione con grande concorso di genti][23].

Come si è visto, il Pansa scrive che il monastero di Manoppello, sub titulo di Santa Maria di Vallebona, “si ritrova cambiato in un istrumento del 1576 in quello di Santo Stefano di Vallebona, ma il Beato compare tuttavia citato per la prima volta nel Digestum dello Zanotto in un documento del 1208, e dunque di molto anteriore, in cui vengono invocati oltre alla Beata Vergine e San Pietro Principis anche Santo Stefano Confessore, protettori in vari periodi del cenobio, all’epoca, benedettino.

Di Santo Stefano in particolare nulla si dice circa il suo luogo d’origine, anche se una “tradizione ininterrotta ed altri documenti” non citati lo vogliono nato a Carovilli (Isernia), come sostiene appunto il Ricchiuti nell’opuscolo citato, “tra il 1099 ed il 1118”.

È utile ricordare che di tali notizie nebulose non si rinvengono tracce nel Regesto dello                  Zanotto, dal quale apprendiamo che “nel 1591, essendo già diruti chiesa e monastero di Vallebona, il corpo di Santo Stefano, che vi si venerava, fu solennemente trasportato e riposto nella chiesa di S. Spirito a Maiella”[24].

Ma non finiscono qui le “disavventure” dei resti mortali del Beato (o Santo) Stefano del lupo.

Informa sempre il Pansa, sulla base di documenti trascritti dallo Zanotto, che nel 1645 all’immagine “antichissima” di un Crocifisso, affrescato su uno dei muri della chiesa diruta di Vallebona e salvatosi dall’ingiuria degli agenti atmosferici, furono attribuiti portentosi miracoli che richiamarono “una moltitudine di popolo dalle terre convicine e da quelle lontane”.

Sicché grazie anche alle numerose “oblazioni ed elemosine”, l’Università di Manoppello diede inizio al restauro del monastero e della chiesa e qui “nel 1646 il corpo di Santo Stefano fu di nuovo trasportato”.

Ma i monaci celestini, scrive il Pansa sulla base di documenti contenuti nello Zanotto, non vi vollero più restare ed è probabile che per tal motivo i resti del Santo furono trasferiti negli anni seguenti nella chiesa parrocchiale di Roccamorice, dove restarono fino al 1807.  Il 29 settembre di tale anno le spoglie di S. Stefano “del lupo” furono riportate a Carovilli e collocate nell’artistico altare di marmo policromo del XVIII secolo, che tuttora si ammira nella navata sinistra della chiesa parrocchiale di Carovilli, e dedicato appunto al Beato Stefano[25].

Il Ricchiuti riporta nel citato volumetto sul culto di Santo Stefano “del lupo” una strofa, precisamente la quarta, tratta da un canto devozionale in latino – e pertanto di origine colta e chiesastica – che “ab immemorabili” si cantava nella chiesa madre di Carovilli.

Don Mario Fangio, parroco di tale località, ha riproposto l’intero canto con il titolo di Responsorium [26]  che manca tuttavia di una versione dialettale locale e non può essere ascritto alla tipologia delle Orazioni. La terza e quarta strofa, trascritte qui di seguito, sono corredate della necessaria versione in italiano ad opera di Ilio Di Iorio.

III Strofa:  In oneratas frugibus  nostras difendit segetes  a strage dira grandinis ortos depellens turbines  [Difende i nostri campi Carichi di biade, dal terribile danno della grandine, respingendo le insorte tempeste]

Come si vede questi versi accennano ai primigeni patronati di San Domenico di Cocullo, il quale secondo le Vitae coeve del discepolo Giovanni e del Monaco Alberico di Montecassino possedeva, oltre a quello antifebbrile, un patronato antitempestario, dunque contro le piogge e soprattutto contro la grandine devastatrice dei raccolti e particolarmente temuta ancora oggi dai ceti rurali.

Ma vediamo la IV Strofa:

       Is lupi morsus rabidi, non dibiae necis nuncios, ut saepe experti novimus veneno prorsus exuit.[Egli in verità priva del veleno i morsi del lupo affetto da rabbia, forieri di morte sicura, come sappiamo avendolo spesso sperimentato]

Qui viene menzionato un patronato antirabbico, posseduto da S. Stefano, da ritenersi decisamente singolare, perché non esercitato come nel culto di S. Domenico di Cocullo, contro il morso dei cani, ma addirittura contro quello dei lupi affetti da rabbia, i quali aggiungono questa ulteriore negatività al pericolo reale rappresentato per il gregge nelle società agro-pastorali appenniniche.

Vanno sottolineati inoltre in questo particolare episodio di religiosità popolare i tentativi della gerarchia ecclesiastica locale di ricondurre i patronati di Santo Stefano “del lupo” nell’ambito di generici e non precisati “mali dell’anima e del corpo”, come si legge appunto nella citata Novena, che contrastano con la precisa richiesta di protezione “dal terremoto”, come indicata nel succitato Responsorium ed esercitata soprattutto nell’Italia Centrale da Sant’Emidio.

Come ha ben evidenziato Giuseppe Profeta, cui si deve l’importante passo in avanti compiuto in campo storico-antropologico, nella conoscenza della dinamica di formazione del culto di S. Domenico di Cocullo[27], l’acquisizione del patronato antirabbico è precedente a quello antiofidico e di conseguenza ogni influenza marsa, presupposta nella formazione iniziale del culto, diventa del tutto inconsistente[28].

Circa il periodo storico in cui S. Domenico si arricchisce dei nuovi e singolari patronati antirabbico ed antiofidico, occorre partire da una precisa data di riferimento: la visita pastorale compiuta a Cocullo nel 1629 dal Vescovo di Valva e Sulmona Francesco Cavalieri e conseguente relazione “ad Limina” trasmessa a Roma nello stesso anno alla Sacra Congregazione dei Riti.

In essa il vescovo Cavalieri comunica che a Cocullo “vi è la chiesa di S. Egidio et S. Domenico con un dente di questo Santo, dove concorrono quelli che sono morsi da cani rabbiosi”.

Il primo ventennio del XVII secolo appare pertanto decisivo per la formazione del culto, tutto incentrato sulla presenza a Cocullo del sacro dente, donato secondo una leggenda agiografica da S. Domenico ai nativi di Cocullo e menzionato per la prima volta dal vescovo di Valva Del Pezzo nella visita pastorale fatta il 21 aprile 1594 a Cocullo[29].

Giuseppe Profeta evidenzia la funzione del sacro dente, cioè il dente buono che costituisce una difesa contro i denti cattivi del mondo animale, quali appunto i denti dei cani affetti da rabbia e i denti dei rettili velenosi. È proprio questa dicotomia, “buono – cattivo”, messa in evidenza negli ambienti benedettini, che viene recepita dal clero di Cocullo, il quale comprende bene l’affaire legato al sacro dente.

Ora, fra le leggende agiografiche registrate nei libretti devozionali, va ricordata quella contenuta nella fondamentale Vita di San Domenico da Foligno (Foligno 1645), perché in essa l’Autore, L. Iacobilli, scrive come fosse “fama che il Santo liberasse gli habitatori (di Cocullo) da un feroce lupo che gli soleva andar divorando”e guarisse le persone morse “da cani rabbiosi o da serpenti”, introducendo così accanto al primigenio patronato antirabbico quelli antiofidico e antilupesco.

Il lupo è assunto qui solo come uno dei simboli del negativo esistenziale, in quanto attenta alla vita dell’uomo ed a quella degli animali che coadiuvano con lui, come nel caso di S. Amico, alle diuturne e faticose attività lavorative. È con il Febonio, autore delle note Historiae Marsorum, pubblicate postume nel 1687, che il lupo diventa “rabbioso” in una leggenda agiografica da ritenersi fondamentale e così riassunta dallo storico marsicano: allorché S. Domenico fa il suo ingresso a Cocullo, “gli va incontro piangendo una gran turba che inseguiva un lupo rabbioso, che aveva rubato un bambino e si dirigeva verso la vicina selva. Il Santo, commosso dalle lacrime dei genitori, chiamò la rabbiosa bestia e, in nome di Dio, le ordinò di lasciare la preda; immantinente il lupo, dimentico della sua ferinità, restituì il piccolo ai genitori senza danno”[30].

L’episodio del lupo affetto da rabbia è riferito anche dallo storico sulmonese E. De Mattheis[31], nell’opera tuttora allo stato di manoscritto e dal titolo Memorie storiche de’ Peligni divise in tre libri ecc., composta nel decennio 1660-1670. In tale periodo il De Mattheis ricopriva la carica di “Pubblico Archiviario” di Sulmona ed ebbe perciò “tutto l’agio – come scrive il Pansa – di studiare le antiche scritture per corredarne le sue Historiae Peligne[32].

Questa precisazione non è di poco conto, dato che alcuni studiosi attribuiscono al De Mattheis la prima notizia della leggenda del lupo rabbioso, che appartiene invece di diritto al Febonio.

È da ritenersi che la leggenda intorno al lupo rabbioso risalga agli inizi del XVII secolo oppure allo stesso periodo 1640-1645, quando cioè cominciarono a registrarsi a Vallebona i primi “portentosi miracoli” operati dal Crocefisso affrescato nella chiesa. Ma a creare la leggenda di Santo Stefano “del lupo” non furono questa volta gli ambienti benedettini bensì quelli celestini, i quali ispirandosi ai patronati di San Domenico di Cocullo, ormai “codificati”, ampliarono l’unico aspetto tralasciato dal clero di Villalago e Cocullo: la rabbia del lupo, la cui leggenda di fondazione, come si è detto, è riferita per la prima volta dal Febonio.

È possibile anche ipotizzare i motivi per cui il lupo rabbioso non abbia costituito un tema sviluppatosi nell’ambito della agiografia leggendaria di San Domenico. Il lupo infatti, poiché attenta alla vita del gregge, degli equini e delle stesse persone (soprattutto bambini), non reclamava nella Weltanschauung dei ceti agro-pastorali segnali di ulteriore negatività.

La leggenda di Santo Stefano del lupo ci pare pertanto il tassello che mancava alla ricostruzione di quell’affascinante mosaico che è appunto la storia devozionale di San Domenico di Cocullo e dei Santi benedettini domatori di lupi.  


[1] Per la leggenda di fondazione del monastero di San Pietro Avellana e per le incerte fonti storiche benedettine relative a questo cenobio cfr. G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino contro i morsi di lupi, serpenti e cani rabbiosi. Inchiesta sul culto popolare di S. Domenico di Cocullo, Pescara 1988; G. Celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. II, Casalbordino 1910.

[2] A cura dell’Associazione Abruzzese di Roma,1986.       

[3] Cfr. Cocullo. Il paese dei serpari, Corfinio, Amalthea Ediz.,2000; N. Chiocchio I Serpari di Cocullo cit.

[4] Cfr. S. Frazzini, Vita di Santo Amico eremita e monaco cassinese, Isernia 1807; ristampa anastatica S. Pietro Avellana 1990, a cura del “Museo di tradizioni popolari e del costume d’epoca” e dell’Archeoclub “Volana”.

[5] Cfr. N. Chiocchio, cit. Non poche perplessità suscita il toponimo Arambona. Ci viene in aiuto a tal proposito P. Settefrati, il quale in un recente lavoro dal titolo La prima Vita scritta di S. Amico di S. Pietro Avellana dal Codice 34 dell’Archivio di Montecassino (Roma 2004), elimina non pochi dubbi sulla vita del Santo, nato presso Camerino (Mc) in loco Arabona, Abbazia presso Montemilone. Negli Acta Sanctorum (mese di novembre) si legge però che presso il Comune di Pollenza (Mc) sorge l’Abbazia di Rambona, una volta chiamata Arabona, il che spiegherebbe perché San Pietro Damiani chiama il nostro S. Amico Ramibonensis. La prima vita di S. Amico, scoperta dal Settefrati, è un manoscritto conservato nell’Archivio di Montecassino ed ha di notevole che in esso compare per la prima volta “il miracolo del lupo”, il quale – sottolinea a ragione il Settefrati – “sembra essere stato aggiunto nella sequenza narrativa successivamente”. Malgrado le indicazioni, comunque contrastanti, offerte dalle diverse Vite, le date di nascita e di morte di S. Amico restano assai incerte.

[6] F. Giustizia, Prolegomeni e frammenti di Storia di un territorio. Clima ambiente vegetale, metrologia e cultura della sopravvivenza all’ombra del Gran Sasso d’Italia dall’epoca recente al medioevo, L’Aquila 2005.

[7] Nell’opuscolo citato il Frazzini scrive che S. Amico addirittura chiese e ottenne, forse mentre era nel Piceno, “di percorrere apostolicamente la Contea di Valva travagliata da grande carestia”. Nell’episodio leggendario si coglie forse l’eco della diffusione del culto del santo, assai venerato -come vedremo- a Sulmona.

[8] G. Ranisio, Il lupo mannaro nella tradizione demologia abruzzese. In L’incantesimo del lupo. Viaggio nell’immaginario folklorico, a cura di A. Gandolfi, Ediz. Ecoesse, Roccamontepiano (Ch.) 2001. Sulla genesi della leggenda cfr. A. D’Amato, Reliquie di sacre rappresentazioni nell’Irpinia, in “Il Folklore Italiano”, diretto da R. Corso, n° III, 1927-28.

[9] Cfr. A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. IV, “Sacre Leggende”, Firenze 1882: San Rainero (o Raniero) proteggeva anche dai “dolori di capo”. Cfr. G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. I, Sulmona 1924.

[10] Cfr. G. Pansa, Miti, leggende ecc., vol. I; sulla figura di San Franco, vedasi il fondamentale saggio di A. Clementi, L’organizzazione demica del Gran Sasso nel Medioevo, L’Aquila 1991.

[11] Sulla genesi delle credenze relative al “Lupo mannaro”, cfr. G. Ortalli, Lupi, genti, culture, uomo e ambiente nel Medioevo, Torino 1977; G. Ranisio, op. cit. e relativa bibliografia; C. Corvino, Lo sguardo del lupo, Napoli 2003; A. Gandolfi, Le Storie di sangue nella tradizione orale abruzzese, Quaderno n. 22 del “Museo delle Genti d’Abruzzo”, Pescara 1994. Per tali superstizioni nella Marsica cfr. Q. Lucarelli, Biabbà. Storia di una cultura subalterna, vol. II, a cura di T. Lucarelli e F. Cardarelli, Centro Studi Marsicani, Avezzano 2003. Leggende sul lupo mannaro sono riportate da E. Canziani in Attraverso gli Appennini e le Terre degli Abruzzi, Roma 1979.

[12] Cfr. a tal riguardo F. Cercone, La strega e il mietitore nelle credenze natalizie peligne; in “Abruzzo Oggi”, Anno II, n° 4, Pescara 1978; G. Finamore, Tradizioni Popolari Abruzzesi, rist. Forni Ed. Bologna.

[13] Cfr. G. Pansa, Di un antico rituale membranaceo della chiesa Cattedrale di Sulmona e di alcune ricerche storiche sulla topografia di questa città nei tempi di mezzo, Sulmona 1891. Attiguo alla chiesa esisteva anche il “Cimitero” di S. Amico. Al Santo era dedicato inoltre un altare nella chiesa dell’Annunziata.

[14] Cfr. fra’ Serafino Razzi, Viaggi in Abruzzo, a cura di B. Carderi, L’Aquila 1968.

[15] “Secondo la leggenda popolare -scrive il Pansa- San Domenico Abate nel passaggio che fece per Cocullo incontrò una lupa, la quale recava nella bocca un pargoletto, unico figliuolo di una povera vedova che, disperandosi, correva appresso alla fiera. Alle invocazioni della madre, San Domenico si commosse e ordinò alla lupa di lasciar tosto la sua preda. Quella docilmente obbedì e depose a terra il bambino…”; cfr. G. Pansa, Miti, leggende ecc., vol. I. Va notato che dell’episodio del lupo non v’è traccia nella Vita di San Domenico scritta dal suo discepolo Giovanni, la nota Vita Johannis contenuta nel I° vol. degli Analecta Bollandiana. La prima citazione dell’episodio leggendario si rinviene nell’opera Historiae Marsorum del Febonio, pubblicata a Napoli nel 1678.

[16] Su queste fondamentali tematiche confronta G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino ecc., op. cit.; idem, Lupari, incantatori di serpenti e Santi guaritori, L’Aquila 1995; id., Il serpente sull’altare. Ecologia e demopsicologia di un culto; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976; E. Giancristofaro Tradizioni popolari d’Abruzzo, prefazione A. Di Nola, Roma 1995.

[17] Le trote, tramutate in serpi, costituiscono come è noto un episodio agiografico di S. Domenico di Cocullo. La perdita della vista, da parte del servo del conte Borrello avvenne mentre attraversava il Volturno. Per ulteriori notizie sull’episodio leggendario cfr. P. Settefrati, op. cit.

[18] Su tale argomento cfr. le opere: U. D’Andrea, Notizie relative a cattura ed uccisione di lupi in provincia di L’Aquila tra gli anni 1810-1823 e 1877-1924. Casamari 1976; id.: Cattura ed uccisione di lupi ed orsi in provincia di Chieti durante i secoli passati, Casamari 1988; G. Profeta, Il serpente sull’altare, L’Aquila 1998.

[19] Giova ricordare -come ha ben messo in evidenza G. Profeta, cui si deve un notevole passo in avanti nel campo delle conoscenze sulla dinamica di formazione del culto- che San Domenico di Cocullo, detentore inizialmente soltanto di un patronato antifebbrile ed antitempestario, si arricchisce prima di un potere antirabbico -come risulta dalla Visita Pastorale compiuta dal vescovo di Valva Francesco Cavalieri nel 1629- e solo successivamente (anno 1645) di quello antiofidico. Cfr. soprattutto di G. Profeta, Lupari, incantatori di serpenti ecc., op. cit.; id., Un culto pastorale sull’Appennino ecc., op. cit.; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, II Edizione, Torino 2001.

[20] Cfr. S. Ricchiuti, Brevi cenni intorno alla vita ed al culto di S. Stefano da Carovilli, monaco benedettino, Agnone1923. Secondo una tradizione non suffragata da precise testimonianze storiche, il beato Stefano sarebbe nato a Carovilli agli inizi del sc. XII.

[21] Il Regesto dello Zanotto, (citato spesso da Giovanni Pansa, che ne era proprietario), è stato di recente pubblicato a cura della Deputazione Abruzzese di Storia Patria.

[22] Cfr. G. Pansa, L’antico Regesto del monastero di Vallebona (1149- 1383), in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n° 8, Casalbordino 1899.

[23] La versione italiana riportata è a cura di Ilio Di Iorio, cui va il nostro ringraziamento

[24] G. Pansa, op. cit. Secondo alcuni storici Santo Stefano “del lupo” non fu altro che il Beato fra’ Stefano de Calvellis, discepolo di fra’ Pietro dal Morrone. Scrive per es. il Fiocca in merito a tale vexata quaestio: “Noto in primis che in fondo gli storici di San Pietro Celestino, nell’indicare tra i seguaci del Santo anche fra’ Stefano di Calvelli, non hanno avuto tutti i torti a tradurre Calvelli  in Carovilli e che, probabilmente, Santo Stefano del lupo, protettore di Carovilli, non sia altro che il Beato Stefano de Calvellis ordinis Coelestinorum , citato dagli storici e dipinto accanto a Celestino V nei quadri della Badia di Sulmona”; cfr. G. Fiocca , Carovilli. Per lumi sparsi, Isernia 1985.  Il Fangio ribadisce invece senza però addurre documenti probanti che Santo Stefano del lupo “non è in alcun modo da confondere con Stefano de Calvelli, vissuto un secolo dopo”. La situazione in cui versa attualmente la Badia di Santo Spirito a Sulmona, adibita fino ad alcuni decenni fa a carcere, rende problematico un riscontro della tesi sostenuta dal Fiocca e comunque la quaestio appare di secondaria importanza rispetto all’episodio creatosi attorno al singolare patronato che fa di Stefano un altro Santo benedettino domatore di lupi.

[25] Cfr. Novena a Santo Stefano “del lupo”, monaco benedettino di Carovilli, a cura di D. Mario Fangio, Isernia, tip. Minichetti-Guglielmi, senza anno di edizione (1987?).

[26] Cfr. Novena a Santo Stefano “del lupo”, ecc., op. cit.

[27] Cfr. G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino Edizione rinnovata ed ampliata Pescara 1993; id., Lupari, incantatori di serpenti ecc., op. cit.

[28] La tesi dell’ascendenza marsa sulla formazione del culto di S. Domenico fu sostenuta soprattutto da G. Pansa in uno studio apparso in più puntate sui periodici “Luci Sannite” (1938) ed “Attraverso l’Abruzzo” (1957), dal titolo Un capitolo di psicologia popolare. L’ordalia totemica dei Marsi e il Santuario di S. Domenico di Cocullo. Lo studio è stato di nuovo pubblicato in G. Pansa, Miti, leggende, superstizioni. Scritti inediti e rari, a cura di F. Cercone, Japadre Ed., L’Aquila 1979.

[29] Cfr. al riguardo R. Colapietra, Zelo di pastori e protervia di greggi in Diocesi di Sulmona (1573-1629) in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, Annata LXXV (1985), L’Aquila 1986.

[30] M. Febonio, Historiae Marsorum Libri tres, una cum eorundem episcoporum catalogo ecc., Napoli 1678; G. Profeta, Il serpente sull’altare ecc., op. cit.; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi ecc., op. cit.; L. Iacobilli, Vita di S. Domenico da Foligno, Abbate dell’Ordine di San Benedetto, Fondatore di diece monasterij dell’istesso Ordine in Italia, e Protettore di Sora e Arpino, Foligno 1645.

[31] E. De Mattheis, Memorie storiche dei Peligni, a cura di E. Mattiocco e G. Papponetti, DASP L’Aquila 2006.

[32] Cfr. G. Pansa, Emilio De Mattheis, l’Opera sua e i cronisti sulmonese, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n° 2, Lanciano 1897.

image_pdfimage_print

About Post Author