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LA SCOMPARSA DELLE RIVÉGLIE dal patrimonio botanico abruzzese

[Pubblicato in “Rivista abruzzese”, Anno LV, N 2 Lanciano 2002]

di Franco Cercone

Non so come, ma discorrendo con alcuni contadini di Cansano, miei compaesani, sull’alto costo nei nostri giorni della verdura, il discorso è caduto sulle erbe di campagna ed in particolare sulle rivéglie (reveje, roveje) che ancora venti anni fa circa crescevano spontaneamente in alcuni campi incolti nei pressi della Difesa del nostro paese.[1]

Scrive nella seconda metà del ‘700 Vincenzo Giuliani a proposito del Piano delle Cinque Miglia, che questo territorio “è poco atto alla semina del grano per le molte nevi che vi cadono d’inverno. Ma comeché non v’è terreno che sia tanto avaro che non dia qualche cosa al suo patrono, vi alligna la segala, e vi si coltiva una specie di legumi simili al pisello di un colore fusco cinereo, detti con lingua patria Riveglie. Queste Riveglie si seminano nel mese di aprile, e vi si raccolgono nel mese di agosto. Molto sodisfano alla povera gente, che costretta a star ritirata in casa per il freddo, e per le nevi, ne fa di esse il magior consumo nell’inverno” [V. Giuliani, Ragguaglio istorico della terra di Roccaraso e del Piano delle Cinquemiglia, a cura di E. de Panfilis, DASP, Padova 1991].

Nel commentare un brano di Ateneo, tratto dal 2° libro di Eruditi a banchetto, il Torcia sottolinea che “il sostegno della vita” sono “la fava, il lupino, l’ortaggio, la rapa, la cicerchia, la cipolla, il cece, il pero selvaggio, il fico secco e l’erveglie, specie di piselli montani diversi dagli ervi, in Apruzzo detti riveglie, ervilia, lodati da Varrone”[2].

Le riveglie, secondo il Torcia, sono diverse dagli ervi (vicia ervilia). Quest’ultimi, informa puntualmente il Manzi, appartengono pure alle leguminose e sono stati coltivati in Abruzzo “fino a qualche decennio fa per il seme, ottimo alimento per il bestiame” [A. Manzi, Le piante alimentari in Abruzzo, Ed. Tinari, Bucchianico 1999].

Dei vicia ervilia sono state trovate tracce, come ricorda lo stesso Manzi, nell’antico alveo del fiume Fucino, allorché in scavi recenti è stato riportato alla luce un villaggio lacustre dell’età del Bronzo.

I vicia ervilia sono citati tuttavia da M. Tenore ed ascritti alla famiglia delle Diadelphia nel suo noto “Viaggio in Abruzzo Citeriore nell’estate del 1831” (ristampa Polla, Cerchio 1997).

Le riveglie dunque, piselli montani appartenenti forse alla stessa famiglia dei “vicia ervilia”, ma differenti dagli “ervi”, venivano seminati ad aprile e raccolte, come ricorda il Giuliani, nel mese di agosto. Questi particolari piselli, almeno nell’area del Piano delle Cinquemiglia, erano di grande aiuto “alla povera gente” e venivano essiccati in modo da essere consumati durante i lunghi e terribili inverni sul Piano.

In una recente e fondamentale opera del Manzi, Flora popolare d’Abruzzo, l’A. chiarisce che il termine riveglie deriva dal “tardo latino herbilia… Si tratta di un’antica varietà di pisello (pisum sativum) un tempo diffusamente coltivata in montagna sia per l’alimentazione del bestiame domestico che per quella umana”[3]. Il Manzi ci parla anche di una minestra ancora in uso tempo fa a Pescocostanzo, nel cui territorio per altro – secondo un informatore locale, Graziano Trozzi – le riveglie sembrano oggi del tutto scomparse.

A tal riguardo riveste particolare importanza la testimonianza di Maud Howe. La scrittrice americana, durante il suo soggiorno a Roccaraso nel settembre del 1898, ha modo di osservare la diffusione della pellagra per l’uso costante della farina di granturco. Qui sottolinea la Howe “la gente vive di polenta, di patate, di piselli secchi e di formaggio di latte di pecora”[4].

 I “piselli secchi” di cui parla la scrittrice sono appunto le riveglie, che lasciate essiccare costituivano una importante riserva alimentare per l’inverno.

Non conosciamo – ed è sorprendente – i motivi della scarsa bibliografia su questo prezioso legume, che deve aver contribuito non poco alla sopravvivenza di quelle popolazioni montane in un periodo in cui – siamo nella seconda metà del Settecento – sull’Altopiano non erano ancora apparsi il mais e la patata.

È da ritenersi che la graduale introduzione delle nuove colture abbia sottratto le riveglie dal normale ciclo produttivo che va dalla semina al raccolto e pertanto, non più coltivate, esse sono degradate allo status di piante spontanee negli stessi appezzamenti dove venivano seminate, svanendo così lentamente dal nostro orizzonte alimentare. A noi resta solo il ricordo del buon profumo di “sagne e riveglie”, preparateci con insuperabile maestria dalle nostre nonne.      


[1] – Sulle “difese” (o defènze) confronta l’importante saggio di A. Manzi, Il Bosco di Sant’Antonio e le antiche Difese (Rivista Abruzzese, n° 1, 2001). Vogliamo aggiungere tuttavia alcune notizie che potranno essere utili a chi vorrà in seguito approfondire l’argomento. Il fenomeno delle “difese” è antico e si manifesta in Europa occidentale nella prima metà del XIII secolo e non riguarda solo il regno di Napoli. (Cfr. G. Duby, L’economia rurale nell’Europa medievale, vol. I, Bari 1970). Come sottolinea il Sereni, “sono proprio i feudatari che, spinti da una accresciuta richiesta di lana sui mercati internazionali , tendono ad estendere nel feudo l’allevamento  ovino, sottraendo abusivamente agli usi promiscui di pascolo delle popolazioni una parte delle terre feudali , che essi chiudono riducendole a difese – come si chiamano – riservate alle proprie greggi o a quelle di grandi imprenditori dell’industria armentizia cui essi le fidano”  (Cfr. E. Sereni , Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1989). Il Sereni (ivi) ricorda, per quanto concerne il regno di Napoli, che fin dal 1443 Ferdinando d’Aragona, con la prammatica De Salario, tentò di opporsi, ma invano, a tale abuso dei feudatari, sottoponendo all’attenzione regia la Costituzione delle “difese”. Sicché fin dagli inizi del ‘700 la “difesa” assume una precisa fisionomia e costituisce “un vasto terreno destinato al pascolo del bestiame di proprietà del signore feudale”. Negli Statuti inediti della Bagliva di Sulmona, risalenti ai “primordi del sec. XVI” (L’Aquila, 1890), G. Pansa scrive che “la defenza era proprio il pascolo assegnato ai bovi “e pertanto l’art. 92 degli Statuti prescriveva che “niuna persona possa andare a pascolare in li lochi … reservati per le defense per li bovi”. È probabile che dopo la legge eversiva della feudalità la maggior parte delle “difese baronali” siano state riscattate dalle Università e destinate a ricovero notturno soprattutto per gli equini. È questo il caso, per es., della Difesa di Cansano, acquistata dai baroni Recupito di Raiano, feudatari di Cansano e Campo di Giove. Nel 1922 l’area della Difesa, tuttora coperta da un manto stupendo di cerri e dai nativi chiamata giardino, fu recintata con pietre a secco con giornate obbligatorie per tutti i cittadini. Qui fino al 1960 circa, si portavano “a vutà” (ad avvolgere o legare) asini e muli, ai quali venivano legate appunto le zampe anteriori per impedirne la fuga.

[2]  – Cfr. M. Torcia, Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792, Napoli 1793. Ristampa anastatica a cura della libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 1974.

[3]  – A. Manzi, Flora Popolare d’Abruzzo. I nomi dialettali delle piante, l’etimologia, i detti e i proverbi popolari, le antiche varietà colturali, Ed. R. Carabba, Lanciano 2001. 

[4] – M. Howe, Roma Beata. Lettere dalla Città Eterna, Boston USA, Little e Brown Co., 1907. La traduzione del brano, tratto dal capitolo “Tra le montagne abruzzesi”, è stata curata da I. Di Iorio in “Uno Sguardo dal treno. Saggi scelti”, Sulmona 1998; volume commemorativo per la ricorrenza del centenario dell’inaugurazione della linea ferroviaria Sulmona-Castel di Sangro.

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